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Alex Honnold e la salita di Heaven in Yosemite

August 19, 2019 | News | No Comments

Il video di Alex Honnold con la sua salita senza corda della via d’arrampicata Heaven a Yosemite, USA.

Nell’autunno del 2011 il climber statunitense Alex Honnold aveva effettuato il free solo di una fessura strapiombante di straordinaria bellezza a Glacier Point, Yosemite. Talmente bella da meritarsi il nome di Heaven, datole da Ron Kauk che per primo l’aveva salita negli anni ’90. La fessura è gradata 5.12d/7c, ma con soli 18 movimenti si può dire che sia senz’altro intensa. In più ha una forza d’attrazione alla quale non aveva resistito nemmeno Dean Potter che l’aveva percorsa, anche lui senza corda, nel 2005.

Questo autunno Heaven è stata salita per la terza volta senza corda, nuovamente da Honnold. Il pretesto era la pubblicità della piattaforma web Squarespace e non sorprende che il filmato sia stato visto più di 90.000 volte in meno di due settimane. Ora però il video è stato rimontato, questa volta specificamente per i climbers, con tutte le informazioni che si potrebbero desiderare su questa via e sull’approccio di Honnold alle sue solitarie. Il video è girato da Jimmy Chin – una vera garanzia per foto e filmati di altissima qualità.

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04/10/2011 – Alex Honnold, l’intervista dopo Heaven e Cosmis Debris free solo in Yosemite
Intervista al climber statunitense Alex Honnold, dopo le sue recenti free solo di Heaven, Alien e Cosmic Debris in Yosemite, USA

Marco Pukli e l’arte di attrezzare una falesia

August 19, 2019 | News | No Comments

Intervista a Marco Pukli, uno tra i più attivi ed esperti chiodatori delle falesie di arrampicata italiane. Di Maurizio Oviglia.

In questa settimana segnata dal Festival non si poteva non parlare di Sanremo. Ma invece delle canzoni o del gossip, preferiamo occuparci di attrezzatura di falesie, scegliendo tra i tanti chiodatori dello stivale proprio un Sanremese DOC. Marco Pukli è nato a Sanremo nel 1964 e vive attualmente ad Ospedaletti, dove svolge la professione di informatico. Sposato con due figli è un alpinista ed arrampicatore sportivo, con un passato di speleologo. Ma la sua grande passione, come potete immaginare, è attrezzare falesie. Le sue vie sono giustamente rinomate, forse perchè Marco, pur non essendo tra i più prolifici attrezzatori italiani, è sicuramente uno di quelli che quando lo fa, lo fa bene. La sua è un’attenzione alla qualità, più che alla quantità. Ho voluto rivolgere qualche domanda a Marco sulla chiodatura a resina, perchè i suoi articoli pubblicati in rete hanno riscosso unanime consenso nella piccola comunità degli attrezzatori italiani. E perchè è stato uno dei primi a mettere nero su bianco (in rete) cosa si dovrebbe fare (e non fare) per attrezzare una falesia il più possibile sicura. In tempi come questi penso che dovremmo, noi chiodatori per primi, assumerci le nostre responsabilità. Facendo il più possibile un buon lavoro e occupandoci, se ne abbiamo l’opportunità, di insegnare “l’arte” a chi si appresta per le prime volte a chiodare un sito di arrampicata sportiva. Non è mia intenzione, con queste inchieste sulla chiodatura, limitare o mettere a rischio la libertà individuale di attrezzare come si crede, nè chiamare in causa Enti o Associazioni che finirebbero per burocratizzare eccessivamente il nostro sport. Piuttosto vorrei che tutti fossero in grado di distinguere un lavoro ben fatto da uno “fatto meno bene”, in modo da prendere le dovute precauzioni. E Marco, secondo il mio parere, è sicuramente una delle persone che può aiutarci!

di Maurizio Oviglia

Marco tu sei considerato uno degli attrezzatori italiani di vie di arrampicata sportiva più competente. In particolare hai scritto degli articoli sulla tecnica di chiodatura, in particolare a resina, considerati tra le migliori pubblicazioni che si possano trovare sul web su questo argomento. Che cosa ti ha indotto a scrivere questa sorta di manuali on line?
Ciao Maurizio; grazie per l’intervista. Mi sono trovato un bel giorno con una sensazione, un pensiero, che non mi mollava più. In molte falesie che frequentavo, anche all’estero, buona parte dei chiodi non mi convinceva più, non li consideravo più assolutamente sicuri, mentre buona parte degli scalatori, per non dire tutti, non se ne rendevano conto, e continuava a usarli come se niente fosse. Che fare?
Vedi, come “chiodatori”, nel nostro lavoro siamo molto più simili a degli artigiani liutai, abili nel costruire strumenti musicali a corda, i quali vengono poi suonati “a orecchio”, che simili a degli ingegneri, a dei professionisti, in grado di progettare, collaudare e certificare il loro lavoro.
Io, l’unica cosa che posso certificare è che l’arrampicata sportiva su roccia è un’attività pericolosa, indipendentemente dal tipo di chiodatura che si può adottare. Certo, più la chiodatura fa schifo e più aumenta il pericolo specifico legato all’attrezzatura. Ma una chiodatura perfetta non diminuisce di una virgola la pericolosità intrinseca dell’arrampicata su roccia.
In fondo, chiodare una via significa creare una “linea” sulla parete, una linea che non sia solo un’idea, ma qualcosa di concreto che ci consente di vivere delle esperienze in un ambiente altrimenti inaccessibile. Per certi versi, la tecnica, i chiodi, i materiali non contano nulla; contano solo perché, senza chiodi, quando voliamo ci spiaccichiamo per terra, e questo non è bello. Ma quando immaginiamo una linea, non ce ne frega proprio nulla dei chiodi, dell’attrezzatura, della tecnica: vogliamo che quella linea sia un mondo dove noi, in quanto persone, possiamo salire con le nostre capacità di persone, di uomini. Capisci? Con la nostra capacità di persone. Il resto, i chiodi, le corde, i moschettoni, sono solo strumenti sussidiari di un mondo molto più vasto e complesso, che noi vogliamo andare ad esplorare. L’ideale sarebbe addirittura salire senza né corda né chiodi, ma è un ideale irraggiungibile; resta il fatto che noi possiamo salire quella linea, e lo possiamo fare attraverso la chiodatura.
L’arte di chiodare si inserisce appunto in quella distanza che separa ciò che realmente riusciamo a fare sulla roccia dal nostro ideale irraggiungibile.
Anche se l’arrampicata su roccia è un’attività che – speriamo! – non potrà mai essere assimilata ad altre attività sportive “normali”, non pericolose, quali giocare a scacchi o andare al cinema, resta il fatto che “vi è del metodo in questa follia”, come diceva l’Amleto di Shakespeare.
Nei miei scritti, ho cercato di fare il punto della situazione su questo metodo. Un po’ per puro gusto intellettuale, un po’ per senso di responsabilità, mi sembrava che fosse giunto il momento di affrontare la questione dal punto di vista culturale: organizzare e mettere insieme ciò che sapevo sul “lavoro” di chiodatura, soprattutto dal punto di vista “pratico”, legato all’esperienza sul campo, e metterlo a disposizione degli appassionati, in modo da iniziare a considerare la tecnica e soprattutto l’estetica di chiodatura in modo un po’ più completo, corretto e condiviso.

Sull’esempio francese, alla fine degli anni ottanta, anche qui in Italia si è incominciato ad usare gli ancoraggi chimici. I francesi li preferivano per una serie di ragioni a quelli meccanici. Tuttavia, a parte dove la roccia non permette ed è troppo tenera, da noi (e in Spagna) c’è stata un’inversione di tendenza e negli ultimi anni hanno avuto larga diffusione i tasselli meccanici. Qual è la tua opinione in merito?
Se utilizzati correttamente, i tasselli meccanici vanno benissimo. Penso che un chiodatore debba sapere usare entrambe le tecniche, in modo da poter scegliere in base all’utilizzo che è meglio farne in ogni singolo caso.
A tutt’oggi, io trovo che con i resinati sia più semplice rispettare tutti quegli aspetti legati sia ai fattori tecnici che ai fattori estetici. Trovo che col resinato si abbiamo nel complesso più possibilità di gestire le varie situazioni che offre la morfologia della roccia.
Certo, con i resinati il lavoro è più lungo, più complicato, più faticoso, ma i risultati che si possono ottenere ripagano ampiamente dell’investimento fatto. Con questo non voglio dire che i resinati siano meglio dei meccanici; dico che in quelle condizioni dove sono richieste alla chiodatura certe caratteristiche con i resinati è più facile ottenerle. Per esempio, su un muro molto strapiombante, ricco di colate di calcite (concrezioni), su roccia molto lavorata, il resinato offre più possibilità per quanto riguarda la scelta del posto in cui installare il chiodo rispetto ad un tassello meccanico.
Forse, ciò che mi piace di più del resinato è proprio la possibilità di installarlo in qualsiasi punto in cui la roccia sia solida, poiché con un po’ di abilità si riesce sempre a trovare un punto ottimale in cui il gruppo chiodo/moschettone/corda lavora al meglio, cosa che con i meccanici, e relative placchette, è spesso più difficile da ottenere. Con i resinati, si riesce (quasi) sempre a far adattare il chiodo alla morfologia della roccia.

Foto 1. Resinato in forte strapiombo.

Foto 2. Fix su muro poco strapiombante; notare l’angolo corretto, tra la linea rossa e quella verde, e l’angolo reale, in blu; anche se il chiodo può sembrare installato perfettamente, la placchetta è leggermente storta. La tensione sul tassello è elevata, anche senza sollecitazione da parte degli scalatori.

Ho l’impressione, e molti colleghi attrezzatori me lo hanno confermato, che si preferisca l’ancoraggio meccanico perché quello chimico è difficile da mettere. Tu pensi sia così o vi sono delle altre ragioni?
Ci sono altre ragioni, tante quante sono le teste dei singoli chiodatori. Certamente l’ancoraggio meccanico è, nel complesso, meno complesso (!) da mettere. Con i fix il lavoro è più veloce, più pulito, i tasselli a differenza delle resine non hanno una data di scadenza per l’utilizzo, e via di seguito.
Ma non penso che un chiodatore scelga il materiale “solo” basandosi su concetti tecnici. Anzi; mi sembra che più che con la ragione la scelta venga fatta seguendo le proprie emozioni. Arriverei quasi a dire che la ragione, nelle scelte di un chiodatore, in genere c’entra ben poco: ciò che guida la scelta arriva da lontano, da una parte di noi di cui non sempre abbiamo sufficiente coscienza.
Nel mio caso, nel preferire (in genere, non sempre!) i resinati probabilmente contano più gli aspetti emotivi che quelli tecnici, razionali. Tanto per fare un esempio, mi sembra che i resinati mi diano più libertà d’azione, e quindi più possibilità creativa. Ma capisco bene che questo non è un argomento strettamente “logico”: è un ragionamento “di stomaco”. Così come certi chiodi mal messi mi fanno venire un reale senso di nausea, così certi chiodi “perfetti” mi procurano un grande piacere.

Foto 3. La Loubière. Resinati “storici”. Discreti e indistruttibili.

Foto 4. Roccia molto difficile per un chiodatore…

Chiodare a resina in strapiombo è indubbiamente più difficile che con i fix. Considerato che le resine epossidiche hanno necessità di un certo tempo per indurire, quali accorgimenti puoi consigliare e quale è la tua personale tecnica?
Domanda la cui risposta richiederebbe un lavoro in 3 volumi, con illustrazioni a colori! Cosa che peraltro si potrebbe anche fare…
Chiodare in strapiombo è sempre difficile e faticoso. Personalmente, salvo casi particolari, quando “lavoro” faccio sempre uso di un gran numero di “tassellini”, in modo da restare il più possibile vicino alla parete, per poter pulire, provare i movimenti, eccetera. In ogni caso, una volta “armata” la via, predisposta quindi con la corda in modo da potervi andare su e già tutte le volte che serve, utilizzare un sistema o l’altro è più o meno la stessa cosa, fermo restando che in strapiombo, in generale, i resinati, offrono un alloggiamento ottimale ai moschettoni.
La mia tecnica è comunque assai complessa; sono talmente tanti gli aspetti importanti, che non saprei ora a quale accennare. Per esempio, per me è fondamentale decidere, come prima cosa, dopo aver armato la via e quindi essere in grado di muovermi liberamente sulle corde stese sulla linea, dove mettere la sosta (che non corrisponde praticamente mai al punto in cui mi attacco per fare i lavori). Per seconda cosa, c’è la scelta del punto in cui mettere i primi 4 chiodi, quelli che possono impedire il “volo a terra”. Per terza cosa, viene la gestione delle sezioni chiave, in modo che i tratti più difficili siano protetti correttamente. Infine, si può procedere a “segnare” il resto della via. Questo criterio obbliga a provare e riprovare la via, al volte anche per ore, fino a che non si è trovata la posizione ottimale dei chiodi, che unisca quindi le esigenze legate alla sosta con quelle dei primi 4 chiodi, con quelle delle sezioni più difficili e con quelle del resto della via. Inutile dire che non mi è ancora capitata una via in cui fili tutto liscio, ovvero che segnata la sosta e i primi 4 chiodi, il resto della via si potesse segnare con facilità. L’abilità sta proprio nel trovare un giusto compromesso tra le esigenze fondamentali di sicurezza e quelle di “buon moschettonamento” di ogni singolo chiodo, per arrivare a non mettere troppi ancoraggi sul tiro o, ancora peggio, lasciare sezioni “importanti” della via male attrezzate.

Foto 5. Resinato in forte strapiombo.

Dopo un primo momento che sul mercato si trovavano solo alcune resine, come la Sikadur 31 (usata in Francia) o la Hilti, ora sul mercato vi sono una gran quantità di prodotti e molti attrezzatori sono disorientati. Puoi dare dei consigli a chi intende cimentarsi, magari per le prime volte, con gli ancoraggi chimici? Se non vuoi consigliare dei prodotti particolari, ci puoi dire quali evitare?
Le variabili nella posa di un ancoraggio chimico sono effettivamente molte, ma non devono fare paura, poiché sono sempre affrontabili correttamente utilizzando le tecniche adeguate. Se non ci sono tecniche, vuol dire che non si può fare.
Al momento, in quanto chiodatori non possiamo fare altro che utilizzare quei materiali per i quali sono stati fatti dei test specifici, per i quali esiste una documentazione che dimostra che è ragionevole utilizzarli.
Per esempio, nel test dell’ENSA, L’Ecole Nationale de Ski et d’Alpinisme (francese), vengono riportati diversi tipi di chiodi, abbinati a diversi tipi di resine.

http://www.ensa-chamonix.net/index.php?option=com_content&view=article&id=112&Itemid=390

http://www.ensa-chamonix.net/index.php?option=com_content&view=article&id=220&Itemid=538

Possiamo utilizzare direttamente questo materiale, oppure utilizzare materiale della stessa classe, o superiore, che anche se non direttamente testato risponde ai requisiti indicati nel test.
In pratica, si tiene in considerazione la documentazione tecnica disponibile, e la si integra con alcuni concetti fondamentali derivanti dall’esperienza dei chiodatori che hanno messo a disposizione della comunità le loro esperienze.

Alcuni chiodatori, soprattutto stranieri, utilizzano le fiale. Qui in Italia qualcuno ha avuto qualche brutta esperienza con questo prodotto, tu cosa ne pensi?
Sulle fialette non ne so abbastanza per poter parlare. Comunque, sempre che chi le usa sia particolarmente esperto e che venga utilizzato il prodotto giusto, in determinate situazioni potrebbe essere un sistema da non scartare a priori. Mi sembra adatto però, per ora, più ad un utilizzo con barre filettate che con chiodi da roccia, i quali hanno una loro forma un po’ particolare e richiedono un certo tipo di foro per essere alloggiati a dovere.

Foto 6. Richiodatura con fialette; no comment, non per le fialette, ma per tutto il resto.

Un’altra delle ragioni dell’abbandono parziale degli ancoraggi chimici nel nostro paese, sarebbe il fatto che in alcune famose falesie ci sono stati casi di depolimerizzazione (come per esempio per la Hilti C150, oggi fuori produzione) oppure di mancata tenuta nel tempo delle fiale chimiche. In nessun caso, tuttavia, gli attrezzatori hanno potuto avere un risarcimento da parte delle ditte produttrici, che hanno imputato ad una cattiva messa in opera il cedimento degli ancoraggi. Essendoci così tante variabili nella posa di un ancoraggio chimico, secondo il tuo parere, come ci si può cautelare?
Ci si cautela, come ho detto, utilizzando prodotti che sottoposti a test specifici abbiano dato risultati idonei.
Ogni singolo caso che solleva un problema va analizzato, volta per volta, per capire qual è esattamente l’aspetto da migliorare. Io, a tutt’oggi, escludendo i chiodi in “ambiente marino”, non ho ancora visto un solo resinato ben messo dare dei minimi cenni di cedimento. Non uno.
Leggendo, per esempio i manuali “LA PROGETTAZIONE DEI SISTEMI DI ANCORAGGIO WÜRTH”, (486 pagine, da leggere tutte!) e il “Manuale della Tecnica di Ancoraggio Würth” (scaricabili gratuitamente sul sito: www.wuerth.it) ci si rende subito conto che, utilizzando i materiali corretti e installando a regola d’arte, le probabilità che un ancoraggio dia dei problemi sono estremamente ridotte, per non dire nulle.

Certo che se in una falesia mi utilizzi, per esempio:
1. Resine poliesteriche, dove il manuale dice: Negli ancoranti chimici a base di resine poliesteriche insature l’influenza dell’umidità nel lungo periodo può in media ridurre la resistenza della resina al 60% circa, e in casi limite anche al 30% del valore iniziale. Le resine a base di vinilestere sono chiaramente meno sensibili ai fattori climatici di quelle poliesteriche. La loro resistenza può ridursi in seguito a fattori ambientali (per esempio umidità) del 10% al massimo.
Inoltre:
2. Non pulisci bene il buco, dove il manuale dice: Nei sistemi ad iniezione la riduzione del carico per l’inadeguata pulizia del foro dipende dalla resina e dal suo effetto adesivo. Essa varia da prodotto a prodotto e può arrivare al 60%”. E ancora: “La resistenza del tassello è influenzata in maniera decisiva dalla pulizia del foro prima della posa dell’ancorante”

Due errori così, messi insieme e uniti a un po’ di sfiga, possono portare a dei seri problemi.

Un altro aspetto molto attuale e molto preoccupante, riguarda i chiodi messi su roccia poco solida, o venata, che suona vuota; è incredibile constatare quanti ve ne siano e, soprattutto, come abbia potuto chi ha messo il chiodo non accorgersi del problema.

Foto 7. Chiodo su blocco venato.

Foto 8. Dettaglio.

Nei tuoi articoli sei stato uno dei primi a insistere sul fatto che gli ancoraggi chimici sarebbero dovuti essere posti incassati nella roccia, inglobandoli nella resina. Tecnica di messa in posa che, in Francia, era ovvia. Invece da noi quasi tutte le falesie hanno gli occhielli che sporgono dalla roccia. Quanto questo, secondo il tuo parere, incide negativamente sulla sicurezza?
Non è tanto un problema strettamente legato alla sicurezza. E’ che abbiamo visto che i chiodi ben incassati abbinati a resine adatte non hanno mai dato problemi. Come ho detto, non ho mai visto un resinato messo a regola d’arte comportarsi in modo anomalo.
Tu prova a togliere un Cosiroc ben messo con la resina Sikadur31: o ti si rompe il martello, o il braccio, o la roccia, ma il chiodo non lo smuovi!
I problemi che io riscontrato erano sempre dovuti a chiodi messi male e resina non adatta. Come a dire: esiste una tecnica affidabile suffragata da decenni di esperienza e da migliaia di chiodi che non hanno mai, in nessun caso, dato problemi, e questa tecnica prevede l’incasso del chiodo e l’utilizzo resina adatta, oltre ovviamente a tutti gli altri accorgimenti tecnici. Dove questi due aspetti fondamentali non vengono rispettati, si apre la strada a successivi problemi.

Foto 9. Resinato correttamente “incassato”; il moschettone lavora perfettamente.

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Foto 10. Resinato “storico” alla Loubière.

Attualmente, in Italia, non esiste una scuola di chiodatura ed i nuovi chiodatori spesso, imparano fai da te, sovente dando vita a lavori poco professionali. Qual è, secondo te, il miglior percorso per “imparare l’arte” e cosa auspichi per il futuro?
Considerando le caratteristiche delle vie d’arrampicata sportiva di oggi, consiglierei a chi volesse iniziare a chiodare di farsi aiutare, almeno nella prima fase, da un chiodatore esperto e di fiducia. Sono ormai talmente tante le cose da sapere che un po’ di scuola mi sembra indispensabile.
In un chiodatore è fondamentale la base tecnica, senza la quale non si va da nessuna parte, ma ciò che fa la differenza è la sua capacità di creare delle belle vie, e questo è un aspetto che va al di là delle nozioni tecniche, e forse anche al di là di ciò che si può insegnare.
E’ fondamentale quindi fare una distinzione tra gli aspetti tecnici e gli aspetti estetici, direi “artistici” del lavoro. Gli aspetti tecnici si possono, e forse si devono, insegnare. Per impararli è necessaria la solita dose di “buona volontà”, di impegno. Per gli aspetti estetici, artistici, invece il discorso cambia radicalmente. Come tirare fuori delle belle vie è un qualcosa che difficilmente può essere insegnato, e quindi imparato, con sistemi standardizzati. In questo caso, la figura di un “maestro” è probabilmente un qualcosa di insostituibile; una persona che sappia unire in sé gli aspetti tecnici con quelli artistici e che sappia, attraverso il proprio esempio, comunicare e trasferire ad altri le proprie conoscenze.

Foto 11. Ah! che bello moschettonare… Flavio Sapia, personalità di spicco nel campo dell’insegnamento dell’alpinismo e dell’arrampicata. Una figura insostituibile nelle attività didattiche del CAI di Sanremo.

Si è parlato varie volte, in Italia, di stilare delle regole univoche per la chiodatura in falesia. Ma ci si è sempre scontrati con opinioni molto differenti che nascevano da una visione talvolta diversa della stessa attività. Secondo te si può, ed è necessario, provare a imporre delle regole?
Sono di grande utilità delle regole tecniche “ufficiali” sui materiali e sul loro corretto utilizzo, basate su test, anche se poi è solo attraverso l’esperienza che si potrà sapere fino a che punto i test di laboratorio soddisfano anche le esigenze reali dell’arrampicata su roccia.
Per il resto, quindi per gli aspetti estetici ed etici, si può provare a ragionare su certi aspetti fondamentali, i quali potrebbero essere condivisi da molte persone, anche di cultura differente. Si potrebbero per esempio seguire dei criteri condivisibili senza troppa difficoltà un po’ da tutti, quali ad esempio che non si chioda, indipendentemente dalla “stile” che si vuole dare alla via, con il rischio di volo a terra, o che non si attrezza in modo indifferenziato ogni porzione di parete senza rispettare lo spazio “vitale” tra una via e l’altra.
Bisogna però fare attenzione a non andare oltre a indicazioni fondamentali, indicazioni che possono essere condivise sia in maniera razionale che dal punto di vista estetico, senza entrare quindi in quei dettagli che sono di competenza esclusiva del “carattere” vero e proprio della via, il quale sarà legato, in relazione, al chiodatore, in quanto persona, e non dovrà essere inibito da regole stabilite a priori.
Imporre regole rigide stabilite grazie ad esperienze passare ostacolerebbe la possibilità di cambiamenti, sia di miglioramenti nelle tecniche, ma soprattutto di evoluzione dell’arrampicata stessa. Nessuno può sapere, oggi, quali saranno le possibilità di domani; come ogni altro aspetto della vita, anche l’arrampicata ha bisogno della libertà di poter cambiare.

Secondo te una meta molto frequentata, come può essere anche Albenga dove hai contribuito attivamente al suo sviluppo, dovrebbe avere una chiodatura che rispetta certi standard o va preservata una certa diversità e caratterialità delle varie falesie, anche facenti parte dello stesso comprensorio?
Finalmente una domanda sulla quale non ho troppi dubbi che mi tormentano! Va sempre rispettata una certa diversità. Ripeto: va sempre rispettata una certa diversità.
Ma bisogna anche ricordarsi della distanza che separa le esigenze tecniche, legate alla sicurezza del materiale da utilizzare, dalle esigenze estetiche, di creatività, di libertà, che poi sono il nucleo stesso dell’arrampicata su roccia. Quindi, potrei dire: materiale sicuro, sempre, ma stili d’arrampicata differenti, sempre.
Forse, è proprio questa pluralità di stili, di situazioni, uno degli aspetti più importanti dell’arrampicata su roccia. E forse è a questa pluralità che è legato il concetto stesso di sicurezza, poiché la pluralità di situazioni richiede, di per sé, la capacità da parte degli scalatori di sapere riconoscere e affrontare le caratteristiche implicite di ogni singola via di roccia, di ogni singolo passaggio.
La via d’arrampicata su roccia è e deve restare un qualcosa di intrinsecamente pericoloso, che si può affrontare solamente grazie al fatto di sapersi prendere le proprie responsabilità davanti alla parete che vuole affrontare.

Foto 11. Qui sono su “L’angolo dei poeti”, al settore destro della Rocca Garda, Albenga. L’ho attrezzata con tasselli meccanici, come le altre 4 vie del settore.

Stolby e il raduno boulder estivo in Siberia

August 19, 2019 | News | No Comments

Il filmato del raduno boulder estivo Stolby in Siberia, Russia.

Di Stolby avevamo già parlato all’inizio anno, quando abbiamo dato notizia di quello che probabilmente è il raduno boulder più freddo al mondo, ovvero il meeting che si tiene ogni gennaio nella Riserva Krasnoyarsk Stolby in Siberia. In realtà questi bellissimi affioramenti di granito immersi nella foresta di Taiga ospitano almeno due volte all’anno un raduno boulder, e quest’estate il meeting ha attirato oltre 100 partecipanti dalla vicina città di Krasnoyarsk e dintorni. Le regole sono, come sempre, semplici: arrampicare il più possibile sui circa 500 boulder che variano dal 5A all’ 8A.

Il prossimo meeting si terrà a gennai e agli organizzatori preme sottolineare che tutti sono invitati “per provare il boulder in Siberia, divertirsi nella bellissima natura della Siberia ed imparare le tradizione dell’arrampicata a Stolby.” Che, per la precisione, vanta 150 anni di storia: la prima via ufficialmente aperta è datata 1851.

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CLASSIFICA
Maschile:

1.Viktor and Vasyliy Kozlov
3. Evgeny Ovchinnikov

Femminile:
1. Galina Terentyeva
2. Valeria Antonenko
3. Valentina Antonenk

La seconda edizione del raduno di arrampicata boulder Orcoblocco si è svolta lo scorso weekend sotto la minaccia della pioggia che non ha spento l’entusiasmo dei suoi partecipanti. Sabato 19 e domenica 20 settembre si replica con OrcoBis, seconda possibilità per gli amanti dei raduni di arrampicata di scoprire i sassi della valle dell’ Orco.

Il maltempo non ha favorito gli scalatori che, da venerdì 11 a domenica 13 settembre, si sono ritrovati a Ceresole Reale per Orcoblocco, il raduno boulder organizzato dal Rifugio Mila.

La scarsa affluenza ha fatto da contrappunto all’entusiasmo dei partecipanti che hanno trovato sassi con una ricca offerta di linee e problematiche curiose da risolvere, attorniati da una cornice naturalistica affascinante. Le zone accanto al torrente sono state le più frequentate. In particolare, lo “Scoglio delle Sirene”, lunga parete di roccia che troneggia sul torrente, ha coinvolto numerosi scalatori in una sfida impegnativa quanto divertente.

Gli organizzatori di Orcoblocco hanno deciso di replicare il raduno anche il prossimo fine settimana, certi che questa volta il meteo sarà dalla loro. OrcoBis riproporrà, quindi, la possibilità di acquistare il pacco ufficiale del raduno contenente la maglietta e la mappa delle zone boulder, con foto dei singoli sassi e l’indicazione delle linee salite, e partecipare alla festa che sabato sera animerà il Rifugio Mila.

Ancora molte le linee che aspettano di essere liberate al settore “Poma”, dieci sassi puliti e mai scalati dedicati ai partecipanti al raduno. Sabato 19 e domenica 20 settembre si torna, quindi, in valle dell’Orco, carichi di entusiasmo e con la certezza che nemmeno la pioggia può fermare i veri “orchi””.

Info: www.rifugiomila.it

10/09/2015 – Valle dell’Orco: breve storia dell’arrampicata boulder
18/09/2014 – Orcoblocco, successo per il primo raduno boulder in Valle dell’Orco

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Tris Rotondo, un successo nella tormenta

August 19, 2019 | News | No Comments

Domenica 28 febbraio 2016 si è svolta in Canton Ticino, Svizzera, la 7° edizione gara biennale di scialpinismo a squadre Tris Rotondo. La gara Super Tris è stata vinta da Filippo Barazzuol e Maguet Nadir fra gli uomini, e dalle donne Jennifer Fiechter e Lorna Bonnel.

Si è svolto nella tormenta di neve, proprio in coincidenza con la massima intensità della precipitazione prevista, la settima edizione della gara a squadre di scialpinismo (per cordate da due o da tre) del Canton Ticino, in Svizzera. Gli italiani Filippo Barazzuol e Maguet Nadir, fra gli uomini, e la coppia svizzero – francese di Jennifer Fiechter e Lorna Bonnel, fra le donne, si sono aggiudicati il Super Tris, la versione lunga della gara con più di 3000 metri di dislivello positivo.

L’organizzazione, con un lavoro improbo, è riuscita a mettere comunque in piedi la manifestazione e a portarla a termine nonostante le condizioni avverse e l’alto pericolo di valanghe. I concorrenti hanno gareggiato su tracciati di emergenza in tutta sicurezza e hanno dato luogo a una gara combattuta a cui ha partecipato, fra gli altri, il campione Jean Pellissier, più volte vincitore del Trofeo Mezzalama. Per Barazzuol si tratta della seconda vittoria di fila al Tris, dopo quella del 2014. Ora – è proprio il caso di dirlo – “non c’è il due senza il Tris”, ha concluso con una battuta l’azzurro Filippo, dando appuntamento al 2018 per questa competizione biennale molto sentita nell’elvetico cantone di lingua italiana.

Grazie al sistema di rilevazione delle foto, con il sistema “Pic2Go”, ovvero l’automatizzazione del riconoscimento e della pubblicazione sui social network delle fotografie (www.pic2go.ch), gli atleti potranno collezionare gli scatti di questa memorabile edizione sotto la fitta nevicata.

di Lorenzo Scandroglio

SUPER TRIS ROTONDO
UOMINI
1 Karpos La Sportiva Fun Pop 3:49:39
173a Filippo Barazzuol M Fun Pop ITA
173b Maguet Nadir M Fun Pop ITA

2 Team Colltex Fun Pop 3:53:48.
144a Sandro Schlegel SANDRO M Fun Pop SUI
144b Alexander Hug M Fun Pop SUI

3 Team Suchet – Crazy Suisse Fun Pop 3 4:05:47
13a Raphael Kaesermann M Fun Pop SUI
13b Damien Corthésy M Fun Pop SUI
13c Michael Randin M Fun Pop SUI

DONNE
Fiechter Bonnel Fun Pop 4:29:04
136a Jennifer Fiechter F Fun Pop SUI
136b Lorna Bonnel F Fun Pop FRA

23 Suze Fun Pop 4:48:35
102a Claudia Stettler F Fun Pop SUI
102b Andrea Huser F Fun Pop SUI

Per le classifiche complete: www.trisrotondo.ch

I climbers statunitensi Dave Graham e Ethan Pringle hanno entrambi ripetuto Thor’s Hammer, la via d’arrampicata sportiva gradata 9a+ a Flatanger – Hanshellern in Norvegia.

Nemmeno una settimana fa abbiamo scritto della grotta Flatanger – Hanshellern in Norvegia e del fatto che una via in particolare – Thor’s Hammer, il martello di Thor – aveva catturato l’attenzione dell’élite mondiale. Dopo la prima salita nel luglio 2012 per mano del "local acquisito" Adam Ondra, questo 9a+ ha visto la scorsa estate una vera e propria ondata di ripetizioni senza precedenti. Ha iniziato il tedesco Alexander Megos, seguito dall’austriaco Jakob Schubert e poi dallo statunitense Daniel Woods. In questa settimana la lista si è allungata ulteriormente grazie a due altri statunitensi che avevano provato la linea insieme a Woods, ovvero Ethan Pringle e Dave Graham.

Pringle aveva già lasciato il suo segno nella grotta durante la sua prima visita alcuni anni fa con le prime salite di The Eye of Odin (8c+) e Nordic Plumber (8c) e, evidentemente ancora in grande forma dopo la sua prima ripetizione a maggio di Jumbo Love 9b a Clark Mountain, a fine settembre anche lui ha raggiunto la catena indenne di Thor’s Hammer. La notizia di ieri invece è che anche Graham è riuscito ad aggiungere il suo nome a quella che, in questa stagione, si è velocemente trasformata in una delle più "popolari" vie sportive di 9a+ al mondo, simile per certi versi a Biographie a Céüse che durante l’estate 2014 aveva registrato quattro ripetizioni.

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Ora sarà interessante vedere se il dream team statunitense ha il tempo, la motivazione ma anche le condizioni climatiche giuste per tentare alcune delle altre vie test di Adam Ondra nella grotta, come ad esempio i due 9b – Iron Curtain e Move – e anche il primo 9b+ al mondo, Change.

Thor’s Hammer
Adam Ondra, prima salita 07/2012
Alexander Megos 08/2015
Jakob Schubert 08/2015
Daniel Woods 09/2015
Ethan Pringle 09/2015
Dave Graham 10/2015

Climb for Nepal al Rock Spot Sud Est di Milano

August 19, 2019 | News | No Comments

Il 19 maggio 2015 nella palestra di arrampicata Rock Spot Sud Est di Milano si svolgerà Climb for Nepal, un’intera giornata di arrampicata dedicata ad una causa importante.

L’ingresso per tutta la giornata del 19 maggio 2015, a partire dall’apertura della sala di arrampicata, sarà di 10,00 € e il ricavato sarà devoluto all’Associazione Italia Tibet.

La palestra milanese organizza una gara boulder che avrà inizio alle ore 17:00 fino alle ore 22:00 a seguire le finali, e per i primi tre classificati uomini e donne l’Associazione Italia Tibet mette a disposizione i premi.

Sarete già tutti al corrente di quanto accaduto nel povero e ora martoriato Nepal, a seguito del terremoto che il 25 aprile 2015 ha colpito con inaspettata violenza l’intera regione con gravi conseguenze alla popolazione, tra i quali tanti nostri amici nepalesi, nella maggioranza dei casi di origine tibetana e gli stessi tibetani rifugiati da decenni nelle aree nei dintorni della capitale e di Pokhara.

E’ evidente che quando succedono fatti del genere non è possibile dare un aiuto a tutti quanti vorremmo o a quanti ce lo richiedono e come spesso avviene non sempre i contributi arrivano a destinazione, in particolare se diretti a "enti governativi" e affini.

L’Associazione Italia Tibet ha deciso di destinare i fondi raccolti per aiutare la popolazione della Langtang Valley in Nepal, al confine con il Tibet. Il tutto a favore dell’associazione Tara Dewa Onlus, i cui responsabili sono due nostri soci: Elisabetta Foglia e il marito Wangyyal Tamang, tibeto-nepalese originario del Lantang che si occupano del sostentamento di bambini di origine tibetana e delle loro famiglie, i cui villaggi da Syabru Besi a Ghoda Tabela sono stati spazzati via dalle frane. La maggioranza risultano in salvo ma molti mancano ancora all’appello. Rivolgiamo pertanto a tutti un accorato appello per quanto saremo in grado di poter fare almeno per questa area.

Durante la manifestazione sarà presente lo stand dell’Associazione per fornire qualsiasi informazione, presso il quale sarà possibile anche acquistare le magliette ONE WAY, FREE TIBET.

Presenzierà all’evento il Segretario dell’Associazione Italia Tibet, Fausto Sparacino.

INFO: www.rockspot.it

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13 of the best beach wave hairstyles of all time

August 19, 2019 | News | No Comments

Is there a better summer hairstyle than beach waves? Whether you’re on holiday, or working through a heatwave, a look that’s elegant yet effortless is everyone’s favourite go-to. The most relaxed of hairstyle classics, beach waves can be expertly undone – see Alexa Chung’s signature kinky long bob; glossed up – think Chrissy Teigen’s natural golden volume (below), with a glow to match; or teased out for a Rachel McAdams-esque, light, textured finish (above).

How to get beach waves in a few, easy steps

Styling tips are thankfully easy, with no need for heat via tongs (although they do come in useful for a more refined beach wave result). All that’s required is plenty of texturising and volume-boosting product – either a cream or a salt spray, or both! To add movement, shape and personality to clean hair, rough dry before scrunching in the hands with your chosen product, and allow to dry naturally. Or, follow the advice of George Northwood, hair stylist to Alexa Chung (below), Alicia Vikander and Meghan Markle: “For the perfect casual, beachy look, working with day-old hair can give you that wonderful undone style.” Just apply dry-shampoo at the roots and blast with a dryer to re-energise. A final spritz of hairspray holds the beach waves in place.

Which celebrities make a case for beach wave hair?

From Gisele’s signature Brazilian blonde waves, to Dree Hemingway’s effortless tousled look, Deepika Padukone’s undone curls, Angela Yeung Wing’s (aka Angelababy) off-duty style, and Eva Green’s jet-black version – here’s ’s pick of the best celebrity beach wave hairstyle inspiration.

Kerry Washington

Sienna Miller

Olivia Palermo

Deepika Padukone

Amber Heard

Zoe Saldana

Priyanka Chopra

Angelababy

Gisele Bundchen

Eva Green

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Silvery waves slosh at the ornate jetty of Vizcaya, a Renaissance-style museum on Miami’s Biscayne Bay. They spill gently over the patterned deck and spread around the feet of a woman with a camera. The sea is coming. Perhaps not today, but it is coming. In the lush surrounding gardens, the neck of a carved stone swan was broken by Hurricane Irma. A minor loss, given the many lives taken by the water and wind as they swept in from the southeast.

When a hurricane approaches, the air tingles. The sea does strange things. In minutes, the sky can turn from azure blue to slate gray. Turbulence comes out of nowhere. You can picture what follows, and many photographers do, but you will find no images of catastrophe in Anastasia Samoylova’s “FloodZone.” She is looking for other things, the subtler signs of what awaits the populations that cluster along shorelines. What is it to live day by day on a climatic knife’s edge? What psychological state does it demand? Hurricanes are sudden and violent; sea-level rise is insidious and creeping. The low-level dread of slow change, and the shock of sudden extremes. Climate and weather.

Miami is raising some of its roads and sidewalks, hoping a few feet will be enough, but enough for what? Enough to keep next season’s tourists from going elsewhere? Enough to assure citizens that matters are under control? There are serious concerns that the limited fresh water is turning salty. Mostly the place carries on, as do most of America’s coastal states, knowing what is coming yet unable, or unwilling, to change. Is disaster more easily imaginable than the painful steps that might avert it? Yes, is the horrifying answer. Disaster will come of us doing nothing, while the painful steps would—will—have to be taken actively, and by us all. A poverty of imagination may be our biggest challenge.

Off of Florida’s western coast is Cape Romano, and off of Cape Romano is a cluster of concrete domes that were once a house. The folly of a man who got rich through oil, it stood on the beach, a beacon of futuristic paradise. But the shoreline is retreating and the house has been sacrificed to the waves. Irma took out one of the domes and the others lean precariously, like an abandoned set from a dystopian movie. On other shores, luxury apartments are under construction. Each is wrapped in computer-generated renderings of how it will look when complete. The images are shiny and bogus, but the buildings they promise will be no more real. They are the bland aspirations of a footloose global élite. Like their future occupants, the towers have little foundation in the past and even less interest in the future. They are the perfect mirage of a permanent present, a phantom beauty to be enjoyed before the economy, or the water, washes it all away.

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In the heat and humidity, nature has the same accelerated blindness. Growth, death, rot, and renewal. Plants sprout from dissolving plasterwork and concrete. Manatees appear at unexpected times and places, super sensitive to changes in the water. Alligators cross roads and iguanas swarm sea walls. This was never a place of boundaries. Seeing it from above, it is clear that the line between land and water was always sketchy, a war of reclamation and loss, fought against the odds. There is something very American in the stubborn will to build cities here, and something equally American in continuing to be stubborn in the face of change.

Life lived in this kind of place brings gnawing, low-level unease. Perhaps that is what paradise always was: the fantasy of a place beyond events, beyond trouble. But escape is its own trap. While our desire for paradise is an attempt to flee some inner turmoil, the lands we call paradise are so often in turmoil themselves. What keeps the dream going is the sumptuous allure of it all. The light and the heat. The shimmer of every shade of wet green. Those pastel pinks that mold and mottle, from forced happiness to sweet melancholy. The tropical palette is here in these photographs, but not as expected. The languorous playground of expensive leisure is here, too, but it is nightmarish.

Paradise is as photogenic as catastrophe. Most often, photographers do not capture either, but are captured by them. Clichés await the unthinking. But how is dread to be pictured? Or anxiety? Or the bitterness of depthless beauty? One can try to avoid the clichés, or one can push through them and emerge on the other side. This seems to be Samoylova’s approach. Her task is first to understand the seductive contradiction of a place drowning in its own mythical images as it also drowns in water. She knows what this place looks like, and knows the Faustian pact it has made with its own image. She looks at both unblinkingly.

Walker Evans once implored, “Stare. It is the way to educate your eye, and more. Stare, pry, listen, eavesdrop. Die knowing something. You are not here long.” It’s true. We are not here long, but neither is the familiar world. Yes, there are certainly things to learn about this place from these images, but in the end photographs are not such good messengers. They bring us too many riches. They pose too many questions they cannot answer, washing like waves around our feet.

This text was drawn from “FloodZone,” by Anastasia Samoylova, which is out this fall from Steidl.

For those unable to decide whether Donald Trump acts as a shrewd political tactician or with mere crude improvisation, the tweet-dare that he sent to Benjamin Netanyahu last Thursday will not settle the matter. It was perhaps nothing more than base animus aimed at Representatives Rashida Tlaib and Ilhan Omar, who are not only the House’s first Muslim women but who embody the educated, cosmopolitan, minority, female, insurgent America that Trump cannot abide. But, in depicting them as anti-Semites (“They hate Israel & all Jewish people,” he tweeted), and thus prompting the Netanyahu government to bar their entry to Israel—and causing virtually the entire Democratic caucus to rally to their defense—Trump seems to have launched a plot against America that even Philip Roth could not conceive.

First, he evokes an Israel that is a model for the kind of tough, traditional, populist, wall-building nation that he thinks America should notionally aspire to; he coddles the right-wing Netanyahu-led forces that are committed to this hard nationalism, and are, at best, cavalier about minority rights and democratic norms; and, at rallies, he hammers away at the alleged anti-Semitism of prominent blacks, Hispanics, Muslims, and others, and suggests that anti-Semites are the true face of the Democratic Party. The hope, it seems, is to spur Jewish voters and contributors—and, more, suburban voters skeptical of radicals, and evangelicals who revere the Children of Israel—to abandon, or further scorn, the Democratic Party in favor of Trump’s G.O.P.

It would be comforting to think that this plot will fail, but so far, deliberately or inadvertently, major characters are playing to form. Netanyahu has continued to pay lip service to congressional bipartisanship, but he has gravitated openly toward the Republican Party, at least since the beginning of the Obama Administration. Rather than emphasizing an Israeli and American partnership based on shared democratic values—and, correspondingly, dealing seriously with legitimate Palestinian demands for sovereign territory and civil rights—Netanyahu has stressed Israeli military muscle in a “neighborhood” polarized by Islamist radicalism and Iran. At the same time, he denies that Israeli policy has ever exacerbated these dangers. For Netanyahu, it is axiomatic that the strong survive, that free enterprise makes you rich enough to be strong, and that Jewish orthodoxy engenders social cohesion and military solidarity. In this view of the world, there is little room for Arabs—or any non-Jews.

This militant, vigilant Israel resonates with Trumpian Republicans. For them, being pro-Israel internationally is akin to supporting unlimited gun rights domestically––a component of what they take to be their defense of civilizational liberty. And Netanyahu reciprocates the love. He is obviously pitching more to the evangelical chorus than to Zabar’s shoppers on the Upper West Side. “You stand with us because you stand with yourselves,” he said at Christians United for Israel’s annual conference, in Washington, in 2017, “because we represent that common heritage of freedom that goes back thousands of years.”

Netanyahu plays his part, finally, because, like Trump, he has his eye on reëlection. Having failed to form a coalition government in May, he will face the voters again on September 17th. The left’s decline and the rise of religious nationalism both play to his advantage. But many voters have grown weary of Netanyahu, who has been in office longer than any other Israeli Prime Minister. A cloud of corruption and the prospect of criminal trials hang over his head. If he again wins a slender victory, he will need to find coalition partners on the right who are willing to pass legislation that will disempower the Supreme Court and keep him out of prison. The price he seems willing to pay is support for legislation from the settler parties that would annex even more land in the West Bank. Netanyahu hopes that by showing Israelis that he has an ultra-special relationship with Trump they will think of him, yet again, as the indispensable man. To this end, he is counting on Trump giving him a more or less free hand with annexation. Indeed, Trump’s Ambassador to Israel has broadly hinted that the United States will pose no opposition to such a move.

Some say that Trump’s tweet “bullied” Netanyahu into acting against the congresswomen, against his own better judgment. It is true that Ron Dermer, Netanyahu’s Ambassador to Washington, had initially announced that Israel would not deny entry to any member of Congress. Then Trump urged Netanyahu not to show “great weakness.” But Dermer and Netanyahu were not disingenuous in saying that Israel had not capitulated to Trump so much as enforced its own laws. Indeed, in 2017, Netanyahu’s government passed legislation barring anyone supporting the Boycott, Divestment, and Sanctions (B.D.S.) movement, which the congresswomen, with qualifications, do. Since at least 2010, when Noam Chomsky was denied entry to Israel, Netanyahu’s governments have been selectively barring people they didn’t like from hanging around the West Bank. It seems truer to say that Netanyahu would have been willing to make a grudging show of tolerance toward the two congresswomen, if only as a sop to AIPAC-supporting Democrats. (A bipartisan group of seventy-two members of Congress visited Israel earlier this month.) But he was not prepared to do so in opposition to Trump. The codependency between them is ever more naked. Each offers the other a measure of legitimacy in his respective base. This time, Trump held the leash; he gave a little tug, via Twitter, and Netanyahu heeled.

Alas, Tlaib and Omar are playing their roles, as well––not simply because of loose talk (“all about the Benjamins”) but, more substantively, because of their vague endorsements of B.D.S., which can be effectively exploited by Trump. Both now associate with the movement, though each tried to fudge this somewhat during their respective campaigns. B.D.S. calls for, among other things, a wholesale boycott of “Israel’s apartheid regime, complicit Israeli sporting, cultural and academic institutions,” and “all Israeli and international companies engaged in violations of Palestinian human rights.” Thomas Friedman, writing in the Times, laments especially that Omar, who represents the district in Minnesota where he grew up, has not been building bridges between its Muslims and Jews. The B.D.S. movement, whose most prominent leader is the Qatar-born Palestinian engineer Omar Barghouti—who lives in the Israeli-Arab town of Acre, was educated at Columbia, and earned a graduate degree in philosophy from Tel Aviv University—was founded, in 2005, in Ramallah. It has never been clear whether the external pressure that the leaders of the movement are trying to mobilize is aimed at ending the occupation or at ending the state of Israel itself.

The attractions of B.D.S. are understandable. The occupation has endured for more than fifty years, and has grown ever more controlling, cruel, and intractable. The spread of Jewish settlements is unabated. For the past twenty years—which means for anyone thirty or younger—it has been hard to imagine Israel dissociated from Ariel Sharon’s swagger or Benjamin Netanyahu’s smirk. It is still harder, given the denial of Palestinian national and civil rights, and the growth of Israeli theocracy, for progressive young Americans to offer a rejoinder to the original Palestinian narrative: that Israel is inherently a racist, colonial project aimed at disenfranchising the Palestinian people; that Palestinian refugees should be able to return to their homes, and Israel as a distinct national entity should be dismantled in favor of a “secular” state; that “Europe” victimized Palestinians by making Jews desperate for a haven and giving them the land—a simplification that Tlaib echoed, albeit in a statement showing a certain compassion.

Netanyahu’s government purported to reverse its decision on Tlaib’s case, announcing that she would be allowed to visit her grandmother, who is in her nineties, in Beit Ur al-Fauqa, a small West Bank town west of Ramallah, on “humanitarian grounds”—though only after the Interior Minister exacted a written pledge from Tlaib “to respect any restrictions” and “not to promote boycotts against Israel during [her] visit.” This pledge only added a measure of humiliation to the original offense. On Friday, Tlaib said that she could not, upon reflection, repudiate her right to speak out, and cancelled the trip. “I’ve experienced the same racist treatment that many Palestinian-Americans endure when encountering the Israeli government,” she said in a statement. Trump then tweeted, “The only real winner here is Tlaib’s grandmother. She doesn’t have to see her now!”

In this context, and to the Democrats’ chagrin, American progressives have been drawn into a simple contest about Israel’s reputation, which can elide its realities. Whether on campuses or in Congress, the existence of the Israeli state increasingly looks to progressives, above all, like a civil-rights violation on the world stage—like apartheid-era South Africa, or the Jim Crow South. B.D.S., for its part, seems to them a reasonable, nonviolent way to confront it. All Israelis, so the argument goes, are implicated in the travesty, which the United States has ingenuously nursed along because of a growing Israel lobby that cynically exploits the memory and legacy of the Holocaust. The time is long past, B.D.S. advocates say, to make all Israelis hurt until they get the message. You boycott Israeli institutions and agitate for disinvestment from Israeli businesses, or from global companies that partner with them; you agitate to sanction Israeli government officials, and threaten to take them to the International Criminal Court. “Led by communities of color, progressive Jewish groups, mainline churches, trade unions, academic associations, LGBTQI groups, indigenous justice movements, and university students,” Barghouti wrote recently in The Nation, “many Americans are abandoning the ethically untenable ‘progressive except on Palestine’ stance.”

Barring American members of Congress from Israel is deplorable. What makes the move also counterproductive is that the best defense against B.D.S. is to expose skeptical foreign visitors such as Omar and Tlaib to Israel’s internal divisions, which will seem utterly familiar to them: its comparatively élite, cosmopolitan—and frustrated—Tel Aviv coast up against poor, pietistic Jerusalem and the rest of the country. Time spent examining more Israeli realities might even persuade them that B.D.S. is an unexamined, contradictory bundle, because boycott, divestment, and sanctions are three very different things, hurting very different slices of Israeli society.

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One can imagine governments sanctioning Israeli settlement policies, much like George H. W. Bush did, in 1991, when he warned that he would deduct any sum that Israel spent on settlements from American loan guarantees. One can imagine international organizations setting telecommunications standards sanctioning Israelis for hogging bandwidth from Palestinian telecom companies.

But to boycott all Israeli universities, or boycott all Israeli entrepreneurs, to disinvest from all Israeli companies, or global companies that invest directly in Israel—all of these things will cut the ground out from under the very people who remain a crucial constituency for the kind of progressive politics that Omar and Tlaib represent and hope to foster. Indeed, it is the moral equivalent of the European Union boycotting Silicon Valley or Harvard in order to undermine Trump’s America. Boycott the Hebrew University and you boycott scholars trying to bridge the studies of the Holocaust and the Nakba. Boycott Israeli chipmakers and you boycott companies setting up research offices in Palestine. If American progressives have a role, it is not to fantasize about collapsing Israel’s universities and economy but to support Israeli progressives who, like Omar and Tlaib, are trying to reform their country. In both places, it will be a long haul.

Make no mistake: it is an outrage that members of Congress should be barred from visiting Israel for any reason. (And it is equally an outrage for an American President to encourage another nation to bar his political opponents.) Imagine another beneficiary of aid, King Abdullah of Jordan, barring Representatives Adam Schiff and Jerry Nadler for supporting resolutions that, in his view, put his kingdom in jeopardy. But outrage is Trump’s specialty. Democratic leaders had better not underestimate the trap that his rants about Israel and anti-Semitism have put them in. Condemn B.D.S. supporters and you risk appearing indifferent to one of the great human-rights issues inspiring the Party’s next generation. Soft-pedal the perils of B.D.S., or even its logic, and you risk debasing the liberalism that inspired the past generation. What, after all, is the difference in moral attitude between boycotting a country and barring a boycotter from it? Trump may be wrong to think that American Jews, more than seventy per cent of whom voted against him, will overlook the affront that his behavior poses. But Trump will not be here forever, and the trap will outlast him. The Presidential candidate who does not flinch from confronting its complexity will be doing the Democratic Party and a democratic country a service.