Quest’estate gli alpinisti sudtirolesi Aaron Moroder e Matteo Vinatzer del Gruppo Alpinisti Gardenesi hanno completato Nuvole Bianche, una via d’arrampicata che hanno aperto sul Sas dla Porta a est del Sas Rigais nel gruppo delle Odle nelle Dolomiti.

Anche se in Dolomiti roccia vergine oramai è rara e trovare una bella linea non ancora scalata non è facile per chi cerca e va in luoghi un po’ meno conosciuti ci sono ancora tante possibilità. La voglia di aprire una via nuova era grande anche per me e il mio amico Matteo Vinatzer e così tenevamo gli occhi sempre bene aperti andando in giro per le nostre montagne e studiavamo le guide per trovare qualcosa che si potrebbe ancora fare. Poi finalmente sul Sas dla Porta, la montagna a est del Sas Rigais, abbiamo trovato una parete alta circa 350 metri, ripida e bella che non era ancora stata salita al centro. Volevamo subito andare a vedere e nell’estate del 2014 abbiamo fatto un primo tentativo.

Entrambi non avevamo mai aperto una via prima e eravamo abbastanza inesperti quando siamo partiti per i primi metri di questa via. I primi 100 metri della parete sono subito quelli più difficili: roccia non sempre buona e strapiombante. Sono partito io e piano piano mi arrampicavo verso l’alto, non c’era un diedro o una fessura evidente da seguire, più si doveva analizzare la roccia metro per metro e cercare prese da tenersi e buchi per piazzare qualche Friend. Ci ho messo un bel po’ fino che sono riuscito a trovare un posto per attrezzare una sosta. Purtroppo poi quel giorno il tempo è peggiorato e ha iniziato a piovere. Ci siamo calati alla base della parete e siamo scesi in valle, poco convinti di voler proseguire.

Circa un mese dopo però siamo tornati, sono salito di nuovo il primo tiro e dalla sosta analizzavo la parete sopra di me: una muraglia gialla che non sembrava facile. Sono partito verso sinistra ma rimasi bloccato sotto un piccolo tetto, agganciato al “cliff”. Ho iniziato a cercare prese per poter scalare più in alto e infilando la mano in un grande buco ho tolto un sasso incastrato e così si è creata una bella clessidra. Questa protezione mi dava fiducia e coraggio a proseguire. Piano piano riuscivo a salire questo tiro strapiombante, piazzando qualche Friend in dei buchi nascosti e battendo due chiodi fino a quando la parete diventava un po’ meno ripida e potevo fare una sosta. Ora mancava solo un ultimo strapiombo, riuscivamo già a vedere le placche grige sopra dove speravamo che la via diventasse più facile. Feci due tentativi di vincere quest’ultimo strapiombo ma non ci riuscivo. Sia le braccia che la testa erano stanchi e abbiamo deciso di scendere e tornare un’altra volta.

Sono passati due anni fino a che avevamo di nuovo voglia di sfidarci con quella parete. Nell’estate 2016 siamo tornati molto motivati per poter finalmente portare a termine questo progetto. Piantando alcuni chiodi e usando un po’ tutte le tecniche dell’arrampicata artificiale siamo riusciti a vincere anche l’ultimo strapiombo e avevamo via libera verso l’alto. Seguivano ancora 3 tiri su delle placche molto belle con roccia stupenda e finalmente ci trovammo in cima e anche se circondati da nuvole eravamo molto soddisfatti.

Ma appena ritornati in valle i miei pensieri tornavano a questa nuova via, specialmente al secondo e al terzo tiro, dove abbiamo dovuto rincorrere all’artificiale per salire. Era chiaro che dovevamo tornare e tentare la libera.

Dovettero passare altri due anni, ma quest’estate finalmente siamo tornati al Sas dla Porta e siamo riusciti a liberare anche il secondo e il terzo tiro e eravamo entusiasti della via, la ricordavamo meno bella. Una stretta di mano in cima e un sorriso in faccia per esprimere la gioia che provavamo. Purtroppo anche questa volta ervamo avvolti dalla nebbia e la vista era pari zero.

Ogni volta che abbiamo scalato su questa via prima o poi eravamo avvolti da nuvole e nebbia, quindi abbiamo scelto il nome Nuvole Bianche.

di Aaron Moroder

SCHEDA: Nuvole Bianche, Odle (Dolomiti)

Video arrampicata sportiva: Felix Kiem sale Himmelsreiter 8c nella falesia Saustall

Cavaliere del Cielo. Ecco cosa significa Himmelsreiter, il nome della via nella falesia sudtirolese Saustall, ripetuta il 21 marzo scorso dal giovane meranese Felix Kiem. A domare questa serie di tacche finora sono stati Jacopo Larcher, Ivo Gamper, Rudi Moroder, Günther Karbon e ora appunto Felix Kiem.

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Il 5° Karl Unterkircher Award è stato assegnato il 14 luglio 2018 a Selva di Val Gardena a Simone Moro che, insieme a Ali Sadpara ed Alex Txikon, aveva effettuato la prima invernale del Nanga Parbat. Le altre due salite in nomination erano quella di Ines Papert e Luka Lindič per la loro via nuova sul Kyzyl Asker in Kyrgyzstan (Cina), e Simon Gietl e Marcel Schenk per la nuova via di ghiaccio e misto sulla parete del Pizzo Badile in Svizzera.

Third time lucky, fortunato la terza volta direbbero gli inglesi. Forse è quello che ha pensato Simone Moro sabato scorso quando, alla terza nomination, gli è stato conferito il quinto Karl Unterkircher Award, il premio ideato per ricordare il forte alpinista altoatesino scomparso tragicamente esattamente 10 anni fa durante un tentativo di apertura di una nuova via sulla difficile ed immensa parete Rakhiot del Nanga Parbat.

La giuria, composto da alpinisti e giornalisti di alto livello – Silvio Mondinelli, Thomas Huber, Simon Kehrer, Hubert Moroder e Carlo Caccia – ha assegnato il premio a Moro per la sua straordinaria, storica prima invernale proprio del Nanga Parbat, effettuata nel febbraio del 2016 insieme ad Ali Sadpara, Alex Txikon e Tamara Lunger che si era fermata a pochi metri dalla cima.

C’è da sottolineare che lo spirito del premio biennale non è voler porre una salita sopra le altre, quanto evidenziarla ulteriormente anche in rapporto allo spirito di Karl Unterkircher. È in questa luce quindi che sono state celebrate anche le altre due salite di assoluto rilievo: quella della tedesca Ines Papert che insieme allo sloveno Luka Lindič hanno aperto nell’ottobre del 2016 Lost in Cina (ED, WI 5+, M6, 1200m), una “perfetta via di ghiaccio in quota” sulla parete SE di Kyzyl Asker (5842m) in Kirghizistan, e quella dell’altoatesino Simon Gietl e dello svizzero Marcel Schenk che, nel novembre 2016, avevano aperto Amore di Vetro (800m, M5, R), un’effimera linea di ghiaccio e misto sulla parete NE del Pizzo Badile.

Ospite speciale della serata di premiazione è stato come di consueto Kurt Diemberger, l’unico alpinista vivente ad aver scalato due Ottomila in prima assoluta che ha ricordato con affetto Unterkircher.

Motivazione della giuria
La giuria della 5° edizione del “Karl Unterkircher Award” composta da Silvio Mondinelli (presidente), Thomas Huber, Carlo Caccia, Simon Kehrer e Hubert Moroder si è riunita oggi, 14/07/2018 per decidere a chi assegnare il riconoscimento.

La scelta si è rivelata oltremodo difficile per l’altissimo livello di tutte le salite nominate che, rappresentando espressioni diverse dell’alpinismo contemporaneo, risultano difficilmente confrontabili. Tutte e tre le imprese sono pagine importanti della storia del confronto tra gli uomini e le montagne.

L’assegnazione del premio non è quindi voler porre una salita sopra le altre, quanto evidenziare una di queste pagine.

A dieci anni dalla scomparsa di Karl sul Nanga Parbat, la giuria ha così deciso di attribuire il “Karl Unterkircher Award” alla spedizione di Simone Moro, Ali Sadpara e Alex Txikon che il 26 febbraio 2016 hanno raggiunto in prima invernale la vetta del Nanga Parbat, che è stato anche l’ultimo grande sogno di Karl.

Lo spirito di Karl resterà sempre su questo gigante himalaiano che – come ha scritto Kurt Diemberger – non è semplicemente “la montagna nuda” limata dalle valanghe oppure “il re delle montagne”, ma anche il “Diamir” dove abitano tutti gli spiriti dei monti.

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La giuria è stata particolarmente colpita dalla storia di Ines Papert e Luka Lindic sul Kyzyl Asker in Cina e dalla capacità di cogliere l’attimo di Marcel Schenk e Simon Gietl sul Pizzo Badile. Entrambe queste imprese rispecchiano in tutti i modi lo stile di Karl nell’affrontare le montagne.

Karl Unterkircher Award
2016: Jon Griffith e Andy Houseman, prima salita del Link Sar West (6.938m – Karakoram)
2014: Simon Anthamatten, Matthias Auer e Hansjörg Auer, prima salita della parete est del Kunyang Chhish, Karakoram/Pakistan.
2012: Marina Kopteva, Anna Yasinskaya e Galina Chibitok, nuova via sulla parete nord-ovest del Great Trango Tower (Pakistan).
2010: Ueli Steck, Schmid sulla parete nord del Cervino, la Golden Gate su El Capitan e le vie normali del GII e il Makalu.

Più informazioni:www.karlunterkircher.com

When the organisers of Woodstock 50 announced on July 31 that the commemorative festival would be called off, just two weeks before it was due to begin, it came as no surprise. The event had been plagued by difficulties since the beginning. In April, the festival’s backer Dentsu Aegis Network said it had been cancelled due to concerns over safety. Organisers denied the claim and a court battle ensued, after which the former secured new financial partners. Set to take place in Watkins Glen, New York, it was relocated to Vernon, New York and then to Maryland. Headliners Jay-Z and Miley Cyrus pulled out in quick succession, and eventually the festival conceded defeat.          

In a statement, co-creator Michael Lang, said: “We are saddened that a series of unforeseen setbacks has made it impossible to put on the festival we imagined.” Lang had been one of the producers of Woodstock in 1969 and was determined to capture the magic of the original. In January he set about selling a dream, telling , “We want this to be more than just coming to a concert.” He spoke about the spirit of activism, the cultural resonance and the need for festivals “to make a difference in the world”. While his plans were vague, the implication was clear: he wanted Woodstock 50 to establish its legacy even before a single act had played.  

Lang and his team seemed less interested in the practicalities of the event – securing mass gathering permits, safety plans, calculating festival capacity – and that was their downfall, costing $32 million in talent fees and irreparable damage to the Woodstock brand. It’s not the only festival to have been cancelled in recent months: Blackpool’s Livewire was abandoned due to investor issues; Barcelona’s Doctor Music Festival collapsed after environmental concerns and changing venues led to requests for refunds; Chicago’s Mamby on the Beach fell through due to the presence of endangered birds on the site; and Belgium’s VestiVille was suspended as a result of security and infrastructural issues. The consensus? Instead of trying to outdo one another, these festivals needed to prioritise the safety of customers and consider their wider impact. 

What is the environmental impact of festivals?

Woodstock once symbolised a utopian return to nature, but today’s festivals are hardly idyllic. In the UK, 23,500 tons of waste are produced at festivals annually, of which only a third is recycled. Among the items deposited in landfills are single-use tents, with the Association of Independent Festivals estimating that 250,000 are abandoned at British festivals each year. Single-use festival fashion is part of the problem; as is glitter, which contains microplastics that contaminate water sources. Add to that excessive noise, light and air pollution from traffic, and you have an event that could upend an entire ecosystem.  

In the midst of the global climate crisis and with an increasing consumer demand for ethical practices, the race is on to adapt. Sustainability is at the heart of Bonnaroo, the four-day festival held on a farm in Tennessee, which releases annual reports detailing its efforts towards land preservation. Oslo’s Øya Festival is also making strides, having banned diesel generators and introduced “green riders” that encourage artists to curb their carbon footprint. Even Burning Man has vowed to change, releasing a 10-year sustainability roadmap to mitigate its impact on the Black Rock Desert.

What are festivals doing to remedy social division?

Burning Man is keen to rehabilitate its image in other ways too. Although its first-ever iteration in 1986 was a celebration of anti-consumerism, it has grown into a festival for the Silicon Valley set. Tickets can cost upwards of US$1,400, and Mark Zuckerberg, Jeff Bezos and Elon Musk are regulars. This year, rising concerns over its cultural drift have prompted a re-evaluation of ticket prices in the hope of attracting a more economically varied audience. Prices have similarly fallen at Coachella, where a general admission wristband for 2020 will cost US$399, compared to US$429 in 2019. (There’s unease about where this money is going, after it emerged that Philip Anschutz, the owner of Coachella’s parent company, has made donations to anti-LGBTQ+ groups.)  

Intended as platforms for counterculture, many modern-day festivals have become bastions of privilege, pricing out locals, revelling in their own exclusivity and feeding on our fear of missing out. The biggest culprit in recent years was 2017’s Fyre Festival, which has been thrust back into the spotlight by two new documentaries, Hulu’s Fyre Fraud and Netflix’s Fyre. Using viral social-media marketing, it promised the party of a lifetime on a Bahamian island – provided you could afford the US$12,000 VIP packages. Reality arrived in the form of cancelled acts and rain-drenched tents. Worst of all was the impact on the people of Great Exuma. Maryann Rolle, a caterer interviewed in the Netflix film, used US$50,000 of her own savings to pay staff after festival organisers wouldn’t. “They just wiped it out and never looked back,” she says. (She has since recouped her losses via a Go Fund Me campaign.)

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Are micro-festivals the future?

As mega-festivals jostle for space, there’s a growing appetite for smaller events that adhere more closely to the laid-back spirit of 1969’s Woodstock (above). Eventbrite reports that over the past four years, the number of boutique festivals on their site has risen by almost 400 per cent. Paul McCrudden, the company’s head of marketing for the UK, believes that audience tastes are changing. “Mainstream festivals focus on attracting as many people as possible, but this often means catering to the lowest common denominator,” he tells “Independent festivals have a more distinct character and their creators are driven by their passions, not simply the need to make money.” Recent successes include Sacramento’s Sol Blume, Thailand’s Wonderfruit and Ghana’s Asa Baako. 

The death of Woodstock 50 provides a cautionary tale for a music industry in flux. Producers might assume blockbuster anniversaries are a safe bet, but the future of festivals relies on intimate gatherings of like-minded people that can foster a real sense of community. Bigger doesn’t necessarily mean better and in an uncertain financial climate, nothing is too big to fail.

Photographed by Sharyn Cairns

A bathroom is one of the spaces we often invest a lot time and money in. Despite being the smallest room in a house, a bathroom will often cost the most to renovate and can be a make-or-break when it comes to the final vision of the property. Choose the wrong tiles? Not sure about your choice of basin? It’s a costly mistake which might stay with you for years. But after the actual renovation — for which you can find ample inspiration here— comes the dressing. 

From the perfect set of plush towels to the all-important addition of hand soap (yes, it’s all-important!), curating your ideal bathroom space can take a little thought. Below, we’ve rounded up six products worth trying for your next bathroom re-dressing — Vogue Living-approved hand soap, monogrammed towels and gorgeous soap tins included. 

A pop of colour 
Who knew a toothbrush could be chic? This orange version by Hay is a considered way to add a pop of colour to your sink — and with plenty more colours to choose from, there’ll be no question about whose toothbrush is whose. 

Hay x Jordan ‘Tann’ toothbrush in orange, $15; hay.com.au

Something personal
Monogramming is everywhere — for a reason. What’s more luxurious than your initials on your bath towels? We love this super soft waffle set from Philé, which can be personalised through monogramming and includes everything you need, from bath sheet to hand towel and wash cloth. 

Philé waffle towel set in Duck Egg Blue, $160; phile.com.au

An elegant hand wash
We recently teamed up with Palmolive to create the perfect hand spa. The result was two scents — Vanilla and Sweet Almond and Magnolia and Argan Oil — in pretty-as-a-picture bottles. Sit them atop your basin for a colourful addition to any bathroom. 

Palmolive x Vogue Living hand wash, $7.

Let there be light
Accessories shouldn’t be discounted in a bathroom. When spare bench space or window sill space are available, a selection of candles can be ideal to keep the space interesting. Whether it’s by the bath or as a pop of intrigue on a shelf, a well-made candle should definitely be considered.   

Candle Kiosk, textured candle in charcoal, $20; candlekiosk.com.au

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Natural elements
Designed by Piero Lissoni, this soap dish adds a touch of minimalism to a bathroom and is practical to boot. Whether it’s in the shower or by the sink, a dish with simple elements won’t detract from the design of the space, but adds serious functional flair. 

Alessi Birillo soap dish, $47; alessi.com.au

Mirror mirror
What’s a bathroom without a beautiful mirror? Apart from adding the illusion of space, a statement mirror can be a simple way of adding character to even the simplest of bathrooms. 

Gubi mirror, approx $1,647; shop.gubi.com

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15th Aug 2019

While it’s totally fine and very normal for diehard fans of Gilmore Girls to watch reruns of Gilmore Girls whenever the mood takes them (no judgement if it’s every single day, we’ve all been there), a new viewing option in a very similar mother-daughter, coming-of-age, cute and quirky small town vein would be very welcome. After all, there definitely comes a time when even the truest of Gilmore Girls fans can’t watch Rory and Lorelai drink one more cup of coffee at Luke’s Diner.

Enter: Ginny & Georgia. According to The Hollywood Reporter, Netflix have ordered a 10-episode season of a new show, Ginny & Georgia, about a 30-year-old mum, Georgia, and her teenage daughter, Ginny, who move to a “picturesque New England town, where Georgia is desperate to put down roots”. The publication notes that 15-year-old Ginny “often feels more mature than her 30-year-old mum”.

Gilmore Girls fans will immediately recognise the similarities. The main characters are a mother and daughter: check. It’s set in a small town in New England: check. The daughter feels “more mature than her mum”: check and double check. Ginny & Georgia sounds exactly like the premise of the Gilmore Girls!

However, according to The Hollywood Reporter, Ginny & Georgia does have the makings of a slightly darker dramatic edge than Girmore Girls, which is a comedy-drama. The publication reports Georgia wants her kids to have a “normal life” which will be possible “unless Georgia’s past catches up to her”. While Lorelai’s relationship with her parents and having Rory when she was just 16, led her to move to the fictional town of Stars Hollow in Connecticut, her past wasn’t terribly dark; she’d made a great life for herself and Rory and her interactions with her past in the form of her parents, Richard and Emily Gilmore, were on the whole, hilarious. Still, this darker “past” in Ginny & Georgia might be an interesting twist on the Gilmore Girls-esque sounding show.

The cast has already reportedly been assembled and production is beginning in Toronto, for an air date slated for some time in 2020. 

The Hollywood Reporter reports Ginny will be played by newcomer Antonia Gentry, Brianne Howey will play her mum, Georgia, and Ginny’s younger brother Austin will be played by Diesel La Torraca. Raymond Ablack is reportedly signed onto play the “owner of a restaurant who can’t help but notice when Georgia moves to town”, which sounds incredibly like the character of Luke in Gilmore Girls.

The show is from first-time creator Sarah Lampert, and also has a first-time showrunner on board in Debra J. Fisher.

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The minimalist strappy sandal isn’t new (last year it seemed The Row’s Bare sandal was the unofficial uniform of fashion week), but it is still very much on the street style agenda. And, unsurprisingly, it’s Bottega Veneta’s square-toe sandal that’s a step ahead. 

Here’s what you need to know about the (continuing) revival of the Nineties classic that’s gaining cult status thanks to Copenhagen Fashion Week’s creative set.

What’s all the fuss about?

The word ‘cult’ is batted around all too often in fashion circles. In reality, only a few brands will achieve cult status. Not many manage to amass an obsessively dedicated following. Fewer still make the kind of wider societal impact that happens organically when wearers ascribe (or want to look like they ascribe) to a certain way of life through their choice of clothing. Bottega Veneta’s square-toe sandal, however, gone cult. But then, if you’ve opened Instagram in the last three days, you knew that already, right?

Okay, who’s wearing these square-toe sandals?

Dutch model Vera van Erp, Danish stylist Stephanie Gundelach and Copenhagen-based creative consultant Pernille Teisbaek are keeping them on regular rotation.

How do they style it?

Essentially, with everything. The square-toe sandal elevates straight-leg black jeans and an end-of-summer knit, or fast-tracks the suit you already own into the new season. It also adds edge to jersey layers (case in point: van Erp’s oxblood ensemble).

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Dopo il nuovo record di velocità di The Nose su El Capitan stabilito il 06/06/2018 da Tommy Caldwell e Alex Honnold, riproponiamo una nostra intervista del 2002 a Lynn Hill che esplora la sua storica prima libera nel 1993 e prima libera in giornata nel 1994 della leggendaria big wall della Yosemite Valley, USA.

Nemmeno due ore. 1 ora, 58 minuti e 7 secondi per la precisione. È questo il tempo, difficile da comprendere, che due giorni fa Alex Honnold e Tommy Caldwell hanno impiegato per salire i quasi 1000 metri di The Nose su El Capitan nello Yosemite. Come per tutte le salite di velocità, i due hanno adottato la tattica del “tutto vale”, ovvero arrampicata libera e dove serve arrampicata in artificiale, ma secondo chi li ha visti sorprende soprattutto il fatto che abbiano arrampicato grande parte della via in libera.

A questo proposito vale la pena soffermarsi un attimo sulla storica prima libera della via, effettuata in quattro giorni nel 1993 dall’allora 32enne Lynn Hill insieme a Brooke Sandahl dopo un primo tentativo nel 1989 insieme al britanno Simon Nadin, vincitore della prima Coppa del Mondo Lead proprio in quell’anno con cui era riuscita a liberare uno dei tiri chiavi della via, il famoso Great Roof.

All’epoca la prima libera per mano di Lynn aveva lasciato tutti, indiscriminatamente, increduli. Poi l’anno successivo arriva il vero colpo magistrale della climber statunitense. Partendo nella notte del 19 settembre del 1994, insieme a Steve Sutton, Lynn ha salito The Nose tutto in libera in sole 23 ore: una salita avanti anni luce e, come amano dire gli anglosassoni, un’assoluta pietra miliare nella storia dell’arrampicata.

Dalla prima libera del 1993 al 2018 sono passati 25 anni, un’eternità per l’arrampicata. Molto è cambiato, ma non tutto. Su The Nose di sicuro non sono cambiate le difficoltà e, a prova di ciò, in questo quarto di secolo la via è stata ripetuta in libera soltanto una manciata di volte. Dalla cordata Tommy Caldwell e Beth Rodden che nel 2005 hanno salito tutti i tiri in libera, alternandosi da capocordata. Dal solito Tommy Caldwell chedue settimane più tardi ha ripetuto in libera The Nose in 11 ore. E, indicando la direzione di quello che poi sarebbe arrivato, è subito sceso alla base di El Capitan e ha salito in libera anche Freerider, impiegando 23 ore e 23 minuti per questo straordinario concatenamento delle due big wall. Infine dall’olandese Jorg Verhoeven che, per la sua libera, ha impiegato 3 giorni nel novembre 2014.

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I tempi sono indubbiamente maturi per altre ripetizioni in libera, e vista l’importanza dell’anniversario, abbiamo pensato di riproporre una nostra intervista con Lynn del 2002 quando ci ha parlato proprio di quell’impossible Nose e ci ha raccontato anche tutto The Nose nelle sue sezioni chiave per la sua libera.

INTERVISTA: L’impossibile The Nose nello Yosemite e il mondo verticale

The Nose, El Capitan, Yosemite, U.S.A.
Prima salita:Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore, 1958 dopo 47 giorni d’arrampicata
Lunghezza:870 m (31 tiri)
Difficoltà:5.13c or 5.9 A2
Prima libera:Lynn Hill, con Brooke Sandahl, 4 giorni settembre 1993
Prima libera in giornata: Lynn Hill, Steve Sutton, 22:00 19/09 – 21:00 20/09/1994